TESTO 2. I testi religiosi. Caterina da Siena

 

I testi religiosi rappresentano una porzione significativa dell’intera produzione volgare del Trecento, e anche in questo ambito ai testi toscani spetta un ruolo preminente.

a) La produzione degli ordini religiosi
Tale produzione è collegata anzitutto all’attività degli ordini religiosi (domenicani anzitutto, ma anche francescani e agostiniani), che trovavano nel volgare un mezzo per accrescere la fede delle masse attraverso la predicazione. Molto lette e diffuse erano le trascrizioni delle omelie di alcuni predicatori: tra questi ricorderemo almeno il prolifico predicatore domenicano Giordano da Pisa (ca. 1260-1310), proveniente dal Convento di Santa Caterina a Pisa, lo stesso in cui si formarono Domenico Cavalca (vedi infra) e Bartolomeo da San Concordio (cfr. Lorenzi Biondi 2017: 354 n) attivo nei primi anni del secolo, e il fiorentino Iacopo Passavanti (ca. 1302-1357), domenicano anch’egli, morto nel 1357 e autore di opere di assoluto rilievo linguistico come lo Specchio di vera penitenza, composto tra il 1354 e l’anno della morte. In una nota pagina di questo trattato, il religioso esprime le proprie preoccupazioni nei confronti di un’attività evidentemente molto diffusa alla sua epoca, la traduzione in volgare dei testi sacri. A questo proposito, il Passavanti raccomanda di leggere con grande cautela i volgarizzamenti dei testi sacri, alcuni dei quali sono a suo giudizio pieni di errori (cfr. Leonardi 1996: 171-175, da cui è tratta la citazione):

 

In certi libri della Scrittura e de’ Dottori, che sono volgarizzati, si puote leggere, ma con buona cautela; imperocché si truovano molto falsi e corrotti, e per difetto degli scrittori [scil. copisti], che non sono comunemente bene intendenti, e per difetto de’ volgarizzatori, i quali i passi forti [cioè ‘difficili’] della Scrittura Santa e ’ detti de’ Santi sottili et oscuri non intendendo, non gli spongono secondo l’intimo e spirituale intendimento; ma solamente la scorza di fuori della lettera, secondo la gramatica, recano in volgare. E perché non hanno lo spirituale intendimento, e perché il nostro volgare ha difetto di propj vocaboli, spesse volte rozzamente e grossamente, e molte volte non veramente la spongono. Ed è troppo gran pericolo; ch’agevolmente si potrebbe cadere in errore.

 

Il passo di Iacopo, ai nostri occhi, conferma l’importanza e la pervasività dei volgarizzamenti di testi religiosi (→ § 2.1). A essere resi in volgare erano non solo i testi sacri, la cui traduzione non era osteggiata troppo severamente dalla Chiesa nell’epoca precedente il concilio di Trento, ma anche opere di vario tipo: i trattati dei Padri della Chiesa e dei teologi (i «libri […] de’ Dottori» citati da Iacopo), le vite dei Santi. Un ruolo importante svolge, tra i volgarizzatori di testi religiosi, proprio quell’ordine dei predicatori, i domenicani, ai quali il Passavanti apparteneva. Un volgarizzatore tra i più prolifici è il pisano Domenico Cavalca, morto nel 1342, autore di numerosi volgarizzamenti di testi evangelici (tra questi ricordiamo gli Atti degli Apostoli) o di opere religiose (come il Dialogo di San Gregorio). Inoltre, ormai nel pieno Trecento, incontrano grande fortuna i volgarizzamenti di compilazioni agiografiche, alcune delle quali erano già molto diffuse nell’originale veste latina, come la Legenda aurea di Iacopo da Varazze; volgarizzamenti di vite e leggende di santi incontriamo anche nell’Italia settentrionale (cfr. Verlato 2009).

 

b) Un esempio di scrittura mistica e devozionale: le Lettere di santa Caterina da Siena
Le opere volgari di santa Caterina da Siena (1347-1380) spiccano tra le scritture devozionali e religiose del Trecento per valore letterario e interesse linguistico (cfr. Leonardi – Trifone 2006; Librandi 2012: 51-58). Esse consistono nel Libro della divina dottrina, datato al 1378 (S. Caterina 1928), e in un imponente epistolario redatto tra il 1367 e il 1377 (S. Caterina 1940). La quasi totalità dei testi cateriniani giunti fino a noi deriva da trascrizioni di discepoli-segretari che operavano su dettatura da parte della santa, il cui livello di alfabetizzazione è ancora oggetto di discussione (cfr. Frosini 2006b: 92); risentono pertanto di «un passaggio dall’oralità alla scrittura che ha certo comportato degli adattamenti» (Manni 2003: 76).

Le opere cateriniane presentano una lingua originalissima, connotata da una fitta tessitura metaforica, riflesso della tensione mistica della santa, e caratterizzata da una riconoscibile impronta di tipo senese. Il linguaggio di Caterina ha esercitato un fascino e un influsso notevoli anche al di fuori dell’ambito strettamente religioso: basti ricordare che l’erudito senese Girolamo Gigli (1660-1722), col Vocabolario cateriniano parzialmente pubblicato nel 1717 (cfr. Gigli 2008), tentò di proporre un modello linguistico ideale su base senese, alternativo a quello cruscante di matrice fiorentina. Il tentativo si concluse con l’espulsione del Gigli dall’Accademia della Crusca e con la condanna al rogo del Vocabolario nello stesso 1717; ma si tratta ad ogni modo di un episodio notevole della fortuna dell’opera di santa Caterina nella storia della nostra lingua.

Proponiamo di seguito, come esempio della scrittura di santa Caterina, una famosa lettera indirizzata a Raimondo di Capua nel 1377 (n° 191 della raccolta). Vi si racconta in toni di forte accensione spirituale e mistica un episodio di storia giudiziaria senese: il gentiluomo perugino Niccolò di Toldo, accusato di spionaggio, è condannato alla pena capitale dalla magistratura senese. Caterina fornisce un resoconto vibrante delle ultime ore di vita dell’uomo, da lei confortato e accompagnato al martirio fino al momento estremo della decapitazione. Fin dai primi righi domina l’immagine del sangue, riproposta quasi ossessivamente come l’identificazione tra l’uomo e il Cristo nel simbolo dell’agnello sacrificale. La lettera esemplifica vividamente l’immaginario mistico di Caterina, caratterizzato da una forte sensualità e da una partecipazione emotiva struggente

 

Lettera CXCI

1Al nome di Gesù Cristo crucifixo e di Maria dolce.

2A frate Ramondo da Capova dell’ordine de’ predicatori.
3A voi, dilectissimo e karissimo padre e figliuolo mio caro in Cristo Gesù, io Katerina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo e racomandandomivi nel pretioso sangue del Figliuolo suo[1], con desiderio di vedervi affogato e anegato nel sangue d’esso dolce Figliuolo di Dio, el quale sangue è intriso col fuoco dell’ardentissima carità sua. 4Questo desidera l’anima mia, cioè di vedervi in esso sangue voi e Nanni e Iacomo figliuolo. Io non veggo altro remedio unde veniamo a quelle virtù principali, le quali sono necessarie a noi: non potrebbe venire, dolcissimo padre, l’anima vostra, la quale mi s’è facta cibo; 5e non passa ponto di tempo che io non prenda questo cibo alla mensa del dolce Agnello svenato con tanto ardentissimo amore, dico, che, se non fuste anegati nel sangue, non perverreste alla virtù piccola dela vera humilità, la quale nascerà[2] dell’odio e l’odio dal’amore. 6E così n’esce l’anima con perfectissima purità, come el ferro esce purificato dela fornace. 7Voglio dunque che vi serriate nel costato aperto del Figliuolo di Dio, el quale è una bottiga aperta, piena d’odore, intanto che il peccato diventa odorifero: 8ine la dolce sposa si riposa nel letto del fuoco e del sangue e ine si vede e[3] è manifestato el secreto[4] del chuore del Figliuolo di Dio. 9O botte spillata, la quale dài bere e inebbrii ogni inamorato desiderio e dài letitia e illumini ogni intendimento e riempi ogni memoria che ine s’affadiga, intanto che altro non può ritenere nè altro intendere nè altro amare se non questo dolce e buono Gesù! 10Sangue e fuoco, ineffabile amore, poi che l’anima mia sarà beata di vedervi così aneghati, io voglio che facciate come colui che attegne l’acqua con la secchia, el quale viersa sopra alcuna altra cosa: 11così voi versate l’acqua del sancto desiderio sopra il capo de’ fratelli vostri, e quali sono membri nostri, legati nel corpo dela dolce sposa. 12E guardate che per illusioni di demonio[5], le quali so che v’ànno dato inpaccio et daranno o per detto d’alcuna creatura, voi non tiriate mai adietro, ma sempre perseverate ogni otta che vedeste la cosa più fredda, infine che vediamo spargere el sangue con dolci e amorosi desiderii. 13Su, su, padre mio dolcissimo, e non dormiamo più, però che io odo novelle che io non voglio più nè letto nè testi! 14Io ò cominciato già a ricevare uno capo nelle mani mie, el quale mi fu di tanta dolcecça che chuore no ’l può pensare nè lingua parlare nè l’occhio vedere nè l’orecchie udire. 15Andò el desiderio di Dio tra gli altri misterii fatti inançi, e quali io non dico, però che troppo sarebbe longo. 16Andai a visitare colui che vi sapete, unde elli ricevette tanto conforto e consolatione che si confessò e disposesi molto bene. 17Et fecemisi promettare per l’amore di Dio che, quando venisse el tempo della giustitia, io fusse con lui: e così promisi e feci. 18Poi la mattina inançi la campana, andai a llui e ricevette grande consolatione: menalo a udire la messa e ricevette la sancta comunione, la quale mai più non aveva ricevuta. 19Era quella volontà achordata e sottoposta alla volontà di Dio, e solo v’era rimaso uno timore di non essere forte in su quello punto, 20ma la smisurata e affocata bontà di Dio lo inghannò, creandoli tanto affetto e amore nel desiderio di Dio che non sapeva stare sença lui, dicendo: «Sta meco e non mi abbandonare, e così non starò altro che bene e morrò contento», e teneva el capo suo in sul petto mio. 21Io allora sentiva uno giubilo e uno odore del sangue suo e non era sença l’odore del mio, el quale io aspetto di spandere per lo dolce sposo Gesù. 22E crescendo el desiderio nell’anima mia e sentendo el timore suo, dixi: «Confortati, fratello mio dolce, però che tosto giognaremo alle nocçe: tu n’anderai bagnato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio col dolce nome di Gesù, el quale non voglio che t’esca mai dela memoria, e io t’aspectarò al luogo dela giustitia». 23Or pensate, padre e figliuolo, che il chuore suo perdé allora ogni timore e la faccia sua si trasmutò di tristitia in letitia, e ghodeva e exultava e diceva: «Unde mi viene tanta gratia che la dolcecça dell’anima mia m’aspettarà al luogo sancto dela giustitia?». 24Vedete che era gionto a tanto lume che chiamava el luogo dela giustitia luogo sancto, e diceva: «Io andarò tutto gioioso e forte e parrammi mille anni che io ne venga, pensando che voi m’aspectarete ine», e diceva parole tanto dolci che è da scoppiare della bontà di Dio. 25Aspettalo dunque al luogo dela giustitia e aspectai ine con continua oratione e presentia di Maria e di Caterina vergine e martire. 26Ma prima che giognesse elli, io mi posi giù e distesi el collo in sul ceppo, ma non mi venne facto che io avessi l’effetto pieno di me: ine su preghai e constrinsi allora Maria e dixi che io volevo questa gratia che in su quello punto gli desse uno lume e una pace di chuore, e poi el vedesse tornare al fine suo. 27Empissi allora tanto l’anima mia che, essendo ine la moltitudine del popolo, non potevo vedere creatura per la dolce promessa fatta a me. 28Poi elli gionse come uno agnello mansueto e, vedendomi, cominciò a ridere e volse che io gli facesse el segno dela croce; e ricevuto el segno, dixi io: «Giuso, alle nocçe, fratello mio dolce, che testè sarai alla vita durabile». 29Posesi giù con grande mansuetudine, e io gli distesi el collo e chinami giù e ramentali el sangue del’Angnello. 30La bocca sua non diceva se non «Gesù e Caterina», e così dicendo ricevetti el capo nele mani mie, fermando l’occhio nella divina bontà e dicendo: «Io voglio». 31Allora si vedeva Dio e huomo, come si vedesse la chiarità del sole, e stava aperto e riceveva <el sangue> nel sangue suo uno fuoco di desiderio sancto, dato el desiderio suo, e elli ricevette l’anima sua e sì la misse nella bottiga aperta del costato suo pieno di misericordia, manifestando la prima verità che per sola gratia e misericordia elli el riceveva e non per veruna altra operatione. 32O quanto era dolce e inestimabile a vedere la bontà di Dio! Con quanta dolcecça e amore aspettava quella anima partita dal corpo! 33Voltò l’occhio dela misericordia verso di lui quando venne a intrare dentro nel costato bagnato nel sangue suo, el quale valeva per lo sangue del Figliuolo di Dio. 34Così dunque ricevette da Dio per potentia, però che fu potente a poterlo fare e il Figliuolo, sapientia, Verbo incarnato, gli donò e feceli participare el cruciato[6] amore, col quale elli ricevette la penosa e obrobiosa morte, per l’obedientia che elli osservò del Padre in utilità del’humana natura e generatione; 35e le mani delo Spirito Sancto el serravano dentro, ma elli faceva uno atto dolce da trare mille chuori. E non me ne maraviglio, però che già ghustava la divina dolcecça, 36e volsesi come fa la sposa quando è gionta all’uscio delo sposo suo, che volle l’occhio e il[7] capo adietro, inchinando chi l’à acompagnata, e con l’atto dimostra segni di ringratiamento. 37E riposto che fu, l’anima mia si riposò in pace e in quiete in tanto odore di sangue che io non potei sostenere di levarmi el sangue che m’era venuto adosso di lui. 38Oimè, misera, miserabile, io non voglio dire più! Rimasi nella terra con grandissima invidia, e parmi che la prima pietra sia già posta. 39E però non vi maravigliate se io non vi pongo che io desideri di vedervi altro che anegati nel sangue e nel fuoco che versa el costato del Figliuolo di Dio. 40Or non più dunque negligentia, figliuoli miei dolcissimi, poi che il sangue comincia a versare e a ricevare la vita.

 

Il testo si basa sulla nuova edizione, curata da Annalisa Listino (Listino 2017-2018), del ms. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, 3514, uno dei testimoni più importanti delle lettere di santa Caterina (cfr. Frosini 2006b); qui la lettera su Niccolò di Toldo è trascritta alle cc. 247v-248r. Il manoscritto viennese presenta una composizione codicologica e una situazione testuale tra le più complesse. Vi si riconoscono almeno tre mani che trascrivono il testo o vi intervengono, una delle quali è stata identificata con quella di Neri di Landoccio Pagliaresi, attivo nella Siena della seconda metà del Trecento anche come autore di opere devozionali in versi. A un’altra delle tre mani si deve una serie di interventi che ritoccano la lingua in direzione fiorentina, espungendone alcuni dei tratti più tipicamente senesi (per tutti questi aspetti, cfr. Frosini 2006b). Rispetto all’edizione di Annalisa Listino, in questa sede proponiamo un testo con notevoli semplificazioni sul piano dei criteri editoriali (l’edizione della studiosa dà conto in modo capillare dei diversi interventi di ritocco, riscrittura e integrazione del testo).

 

Per quanto riguarda la lingua, al netto degli interventi di “ripulitura” del testo, sopravvivono alcuni tratti che possiamo attribuire allo strato linguistico senese originario: nel vocalismo tonico sono interessanti le forme prive di anafonesi attegne ‘attinge’ 10, giognaremo ‘giungeremo’ 22, gionse ‘giunse’ 28, giognesse ‘giungesse’ 26, gionta 36 e gionto 24 (‘giunta, -o’), longo ‘lungo’ 15 (cfr. Castellani 2000: 350). In posizione atona rinvia a Siena (e in generale alla Toscana orientale) il passaggio ‑er‑ > ‑ar‑ dopo l’accento di promettare 17 e ricevare 14, 40, da leggersi appunto con accento sulla ‑é‑ (cfr. Castellani 2000: 350-51); a questo tratto si può accostare la conservazione di ‑ar‑ (che invece passa a ‑er‑ in fiorentino) nelle forme del futuro andarò 24, aspectarò 22, aspettarà 23, aspectarete 24 (ma anderai 22). Singole forme tipicamente senesi (o comunque normali nei testi scritti a Siena) sono bottiga 7, 31 (con ‑ì‑ tonica contro il fior./it. bottega), il verbo vollere ‘volgere’ (dal lat. volvere) documentato dalla 3a persona dell’indicativo presente volle 36 e il frequentissimo avverbio ine ‘ivi’ 8 bis, 9, 24, 25, 26, 27 (cfr. Castellani 2000: 150, 357). Rientra nel quadro linguistico senese anche la coesistenza degli articoli determinativi deboli il e el, quest’ultimo attestato insieme al plurale e (nella nostra lettera e quali 15) solo a partire dal sec. XIV (cfr. Castellani 2000: 357); el funge anche da pronome atono: le mani delo Spirito Sancto el serravano dentro 35. È invece una singolare anomalia il dittongamento in sillaba chiusa di viersa 10 (forse errore per vi versa?), per quanto in senese i dittonghi tendano a estendersi anche oltre l’uso fiorentino (ma, di norma, sempre in sillaba aperta: cfr. Castellani 2000: 355-56). Infine è una costante dei testi antichi di ogni parte d’Italia il rispetto della legge Tobler-Mussafia (enclisi obbligatoria dei pronomi per le voci verbali collocate dopo e o all’inizio del periodo): e disposesi 16, e feceli ‘e gli fece’ 34, e fecemisi 17, e parmi 38, e parrammi 24, e volsesi 36; empissi ‘si riempì’ 27, posesi 29; nota le forme con riduzione ai > a: e chinami ‘e mi chinai’ 29, e ramentali ‘e gli rammentai’ 29, menalo ‘lo condussi’ 18, aspettalo ‘lo aspettai’ 25 (in luogo di chinaimi, rammentaili, menailo, aspettailo).

 

[1] suo corretto su di Dio.

[2] nascerà corretto su nasciarà.

[3] e corretto su ed.

[4] secreto corretto su segreto.

[5] demonio corretto su dimonio.

[6] cruciato corretto su crociato.

[7] il corretto su el.